La guerra contro la Terra

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di Guido Viale (economista, ass. Laudato sì)

Per noi, che abbiamo come orizzonte politico generale la conversione ecologica per salvare la nostra casa comune dalla catastrofe climatica e ambientale ormai in corso, la guerra in Ucraina fa parte della più generale guerra che una minoranza, ridotta ma potente, ha da tempo sferrato contro la Terra cercando di far sì che la maggioranza della popolazione mondiale non se ne accorgesse.

Le prime vittime delle guerre guerreggiate con le armi sono gli umani: quelli massacrati senza potersi difendere, quelli mandati al fronte e “caduti” sotto il fuoco del nemico; ma anche quelli che il fuoco lo fanno, perché ogni guerra è soggetta a vicende alterne.

La guerra in Ucraina diretta contro gli umani, come tutte le guerre moderne – soprattutto quelle di questo secolo – è però anche un fattore che potenzia e accelera la crisi ambientale e climatica, le sue manifestazioni e le sue conseguenze: le esplosioni di milioni di bombe e di spari producono CO2; la movimentazione di mezzi bellici leggeri e pesanti, dai carri armati agli aerei, dal trasporto truppe ai rifornimenti, anche; la produzione di quelle armi, accelerata dalla necessità di sostituire i mezzi distrutti, consuma risorse e produce emissioni di cui l’umanità potrebbe veramente fare a meno; bombe, cannoni e passaggio di mezzi devastano il territorio, trasformandolo in un deserto e distruggono città, villaggi e abitazioni imponendone – se e quando sarà possibile; e forse mai – la ricostruzione, che non le renderà  migliori di come erano prima.

Nel caso specifico della guerra tra Russia e Ucraina, la necessità di ridurre o annullare le importazioni di gas, petrolio, carbone, ferro, materie rare, scatena una corsa all’accaparramento di questi stessi materiali da altre fonti, da altri paesi, e alla costruzione di nuovi impianti, accelerando la devastazione del pianeta e sospendendo, per quanto riguarda l’Europa, tutti i “buoni propositi” dei programmi di quella transizione ecologica promessa dal NextGenerationEU (in Italia, Pnrr) in realtà insufficienti, comunque traditi fin dall’inizio e ora “sospesi” a tempo indeterminato.

Infine, ma forse non è ancora tutto, il blocco dell’export di cereali e semi oleaginosi di cui sia Russia che Ucraina sono grandi produttori (peraltro, la produzione ucraina fa quasi tutta capo a capitali degli Stati Uniti, che si sono accaparrati una porzione di suolo maggiore di tutta la superficie agricola dell’Italia) sta mettendo alla fame milioni e milioni di abitanti di paesi la cui alimentazione dipende dall’importazione di quelle derrate. Si aggiunga che per sopperire alle mancate importazioni – ma “a lungo termine”, come a quella del gas russo, di cui l’Unione europea non sa fare a meno – si progetta di mettere a coltura nuove terre con un ampio impiego di fertilizzanti e pesticidi sintetici che contribuiranno a insterilire altri suoli e ad azzerare la loro capacità di assorbire carbonio; il tutto a detrimento dell’agricoltura biologica ed eco-sostenibile.

Anche se i processi di delocalizzazione che hanno alimentato la globalizzazione sembrano aver invertito la rotta, almeno in parte – la guerra è sicuramente un fattore che promuove questa inversione – il conflitto tra Russia e Ucraina dimostra che non è più possibile confinare gli effetti di una guerra nei territori in cui si svolge. Sia dal punto di vista militare e politico sia da quello economico e ambientale, ogni guerra è sempre di più e inevitabilmente, un evento di dimensioni e con conseguenze planetarie: un pezzetto, come dice papa Francesco, della terza guerra mondiale. Non ne abbiamo tenuto sufficientemente conto con le guerre in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Yemen, e meno che mai con le altre decine e decine di conflitti armati in corso in tutto il mondo; ma adesso che la guerra è scoppiata nel cuore dell’Europa, è diventato impossibile per noi non prenderne atto.

La guerra, le guerre, si intrecciano ovunque alla crisi ambientale e climatica: quella crisi riduce le risorse a disposizione e genera conflitti per accaparrarsi quanto resta; i conflitti, a loro volta, distruggono ulteriormente le risorse disponibili in una spirale che si alimenta da sola. Su tutto presiede la produzione di armi di ogni tipo in continuo aumento: armi che “chiedono” di essere usate, fungendo da moltiplicatori in quella spirale.

La conseguenza di tutto ciò è un’espulsione crescente di genti dalle loro terre, che si traduce in migrazioni in cui la distinzione tra profughi ambientali, economici, politici e “di guerra” tende a scomparire.

Nelle migrazioni che l’Europa ha sperimentato negli ultimi due decenni come meta, spesso mancata, di una fuga ineludibile, è prevalso – con l’eccezione forse dei profughi siriani del 2015 – un connotato selettivo: partono solo i membri più forti, più intraprendenti, più decisi delle loro comunità, gli altri restano a casa o si spostano in una regione vicina in attesa di farvi ritorno e – per lo più invano – di un aiuto da parte di quei loro membri fuggiti, una volta approdati alla meta e sistemati, in cambio di quello che hanno dato loro per pagarsi il viaggio. Questo ha impedito ai più di collegare “l’emergenza” del fenomeno migratorio alla crisi climatica e ambientale e questa alle guerre o ai conflitti armati: cento o duecentomila ingressi non consentiti all’anno sembravano già un peso insostenibile e le politiche migratorie adottate, riassumibili nella formula “fortezza Europa” – ben difesa dall’agenzia criminale Frontex – era potuta apparire una risposta praticabile, ancorché moralmente e politicamente indecente; senza riflettere, però, sulle dimensioni smisurate che la crisi ambientale avrebbe imposto alle migrazioni negli anni a venire.

Adesso, con una guerra nel cuore dell’Europa, la situazione è completamente cambiata: i profughi dall’Ucraina sono già più di sei milioni nel giro di soli due mesi; e a subirne il primo e maggiore impatto sono stati proprio quei paesi dell’Unione europea che più si erano impegnati nelle politiche restrittive nei confronti dei migranti.

Nel frattempo, emergono con evidenza alcune caratteristiche del nuovo contesto migratorio europeo.

Innanzitutto, il razzismo: i/le profughi/e ucraini/e sono stati accolti “a braccia aperte” dalle popolazioni dei paesi confinanti, e non solo da quelle, e immediatamente “regolarizzati”; nazioni che avevano adottato feroci misure ostili nei confronti di chiunque cercasse di passare i loro confini provenendo da paesi diversi dell’Europa, hanno cambiato completamente il loro comportamento di fronte a milioni di ucraini/e in fuga: donne, bambini e vecchi. Spicca tra queste la Polonia, meta principale dei profughi ucraini, ma tuttora impegnata nel respingimento di quelli extraeuropei ai confini con la Bielorussia e persino di quelli provenienti dall’Ucraina, ma di diversa nazionalità, colore della pelle o Rom. Ma l’Ungheria non è da meno. Non che in passato e, verosimilmente, in futuro, manifestazioni di razzismo non si possano riscontrare anche nei confronti della numerosa popolazione ucraina già espatriata in Europa. Ma la guerra ha, forse solo temporaneamente, aperto cuori e portafogli in un benefico slancio di solidarietà.

Questa discriminazione – consolidata anche da atti ufficiali dell’Unione europea – va denunciata con forza ma va anche utilizzata positivamente per riportare il discorso sulle migrazioni nel recinto della razionalità e del diritto: perché questi sì e quelli no?

In secondo luogo, si è visto che “c’è posto per tutti”. Se in due mesi la parte dell’Europa più ostile ai migranti è stata in grado di accogliere sei milioni di profughi dall’Ucraina, la tesi che non ci sia posto nel nostro continente per flussi anche ingenti di nuovi arrivi si rivela insostenibile. Certo bisognerà trovare per tutti una sistemazione decente, se non per sempre, per un periodo indeterminato: quando finirà la guerra in Ucraina? E vorranno tutti/tutte tornare nel loro paese distrutto, quando già prima della guerra il flusso dei migranti ucraini in cerca di lavoro in Europa – uomini e soprattutto donne – era così consistente? E quando finiranno le altre guerre, o le dittature che alimentano quel flusso senza fine di esodi?

Il problema si sposta quindi ben oltre l’accoglienza: occorre ristrutturare le nostre economie in forme e con programmi che consentano l’inclusione di milioni di nuovi arrivati a parità di diritti con le popolazioni autoctone.  Occorre inoltre adattare il nostro stile di vita – e i nostri consumi – alla convivenza con un numero molto più alto di “stranieri”. Vaste programme! avrebbe detto De Gaulle. Ma per noi che lavoriamo alla conversione ecologica, e in tempi rapidi, ogni politica di inclusione di nuovi arrivati è un’occasione per accelerarla e non un ostacolo. Se per convincerci a cambiar vita non basteranno le parole, sarà il caos prossimo venturo di un sistema globalizzato, ma non più governabile e governato, a imporcelo comunque.

A questo dovrebbero essere diretti tutti i fondi che i programmi europei oggi stanno invece disperdendo in mille inutili rivoli, e che con lo scoppio della guerra vengono ora indirizzati a sostituire le importazioni di fossili, al nucleare, e soprattutto alle armi.

Terzo. Ma se si accolgono tutti, resteranno tutti qui? Non possiamo – si dice e si ripete – portare in Europa tutta l’Africa e altro ancora! Ma invece di adoperarsi per bloccare i nuovi arrivi con misure di spietata crudeltà, come è stato fatto finora per i “flussi” di origine extraeuropea, occorre lavorare per porre fine alle guerre, ai conflitti armati, alle devastazioni ambientali e soprattutto alla fornitura di armi che alimentano quegli esodi.

Vuol dire non solo ridurre le cause di tante migrazioni, ma anche preparare il terreno a un ritorno – volontario e non coatto – nel proprio paese di origine. O, meglio, a una libera circolazione di tutti tra il paese in cui si è ospitati e quello di origine. Alla costruzione dal basso di una grande comunità afro-euro-mediterranea.

Anche questo è un programma di conversione ecologica anzi, il più importante di tutti. Molte città distrutte dalle guerre aspettano solo di essere ricostruite; molti territori devastati dall’estrattivismo, dalla monocoltura e dalla crisi climatica possono ancora essere rigenerati, a partire dal suolo e dalle acque.

Ma perché ciò succeda occorre che qualcuno, anzi molti, se ne facciano carico, diventino il presidio di questo risanamento. E chi potrebbe mai farlo meglio di un popolo di migranti in grado di muoversi liberamente tra i paesi di origine, dove mantengono ancora importanti legami con le comunità che li abitano, e i paesi, anzi le comunità, in cui si sono rifugiati, e di cui potrebbero valorizzare le relazioni intessute, se solo venissero accolti e inclusi in forme dignitose? Quanti siriani esuli in Europa non vorrebbero ritornare in patria per ricostruirla, se solo potessero farlo? Certo non tutti, ma molti sì. E quanti ucraini? Idem? E perché non afghani, iracheni, curdi o profughi del Sahel?

Se la guerra è indissolubilmente intrecciata con la catastrofe ambientale e climatica in corso, la pace resta ormai la condizione per la conversione ecologica. Non si può perseguire questa senza dire NO alle armi, a tutte le armi. Mentre dire sì alle armi, a sempre più armi, vuol dire aprire la gara tra olocausto nucleare e crisi climatica, a chi farà prima a raggiungere il punto di non ritorno; a distruggere la Terra e tutte le genti che la abitano.

Foto: Fridays for Future Torino- 25 marzo 2022, Sciopero globale per il clima.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 50 di Giugno-Luglio 2022: “Guerra e migranti, guerra ai migranti

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