Europa dell’oligarchia o della democrazia?

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di Stefano Risso

Per capire chi e come decide in Europa occorre risalire alle modalità della nascita delle  Comunità europee che precedettero l’attuale UE, a partire dalle grandi questioni che ne determinarono la nascita.

Insieme al desiderio di pace dei popoli europei, che  fu reale e diffuso, incombevano alcune grandi questioni economiche e geopolitiche inestricabilmente collegate.

La competizione franco-tedesca da economica e culturale (oggi tendiamo a dimenticare la  contrapposizione culturale che pure fu nettissima negli anni che precedettero la prima guerra mondiale) ha caratterizzato sia la seconda metà del XIX secolo che la prima del XX.

Lo scontro economico ha avuto come oggetto il controllo delle produzioni strategiche dell’epoca: il carbone e l’acciaio. I grandi monopoli privati e i rispettivi stati si sono reciprocamente utilizzati come strumento di potenza sia in contesti di protezionismo che di liberalizzazione degli scambi. Quest’ultima constatazione è importante per ricordare quanto sia falsa l’attuale vulgata dominante, secondo la quale la liberalizzazione degli scambi renda impossibile la guerra. Evidentemente la lezione del 1914 non è stata sufficiente.

La valle del Reno, con le sue miniere di carbone e di ferro è stata le scenario geopolitico di tre guerre (1870, 1914-18 e 1939-45). Questo spiega perché il primo elemento associativo di istituzioni europee nasce (con la CECA) intorno al mercato del Carbone e dell’Acciaio.

Molto interessante notare il diverso atteggiamento del mondo politico e di quello padronale francese. Non dimentichiamo che immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale la Francia era la potenza egemone (o meglio sub-egemone rispetto agli Stati Unti) nell’Europa continentale occidentale.

Il padronato del settore siderurgico (che era ancora chiamato con il suggestivo nome di Comité des forges, sebbene cambiato alla fine del guerra per fare dimenticare la politica collaborazionista) era profondamente avverso all’istituzione della CECA. Le motivazioni vennero chiaramente esplicitate: Perché si doveva rinunciare ad una posizione geopolitica di forza per permettere la rinascita dei concorrenti tedeschi e la nascita dei nuovi concorrenti italiani?

Il mondo politico francese (in particolare Monnet) superò con forza queste obiezioni.

Le “pessimistiche” previsioni del Comité des forges si verificarono e la siderurgia francese vide ridursi la sua quota di mercato; ma questo avvenne in un contesto di crescita così forte che la produzione assoluta della siderurgia francese aumentò in modo molto importante (e così i profitti). Le classi politiche interpretarono gli interessi dell’alta borghesia meglio e in modo più efficace delle personalità di vertice di quella stessa borghesia.

La disastrosa avventura franco-britannica, che accelerò lo smantellamento dei rispettivi imperi coloniali, portò alla rapida conclusione dei patti di Roma nel 1957, che ampliarono la sfera della collaborazione europea all’Atomo e al Mercato Comune nel suo complesso.

Il disegno generale delle istituzioni europee come oggi le conosciamo venne così definito.

La cultura di base dei principali attori politici era quella cristiano-sociale che bilanciava l’approccio liberale a livello europeo con il perdurare (e l’ampliarsi) di politiche keynesiane e di creazione dello stato sociale all’interno dei singoli stati.

Gli stessi trattati furono concepiti in modo da non escludere la possibilità di una attiva politica industriale a partire dal soggetto pubblico, considerata come eccezione, ma giudicata così importante da entrare in gioco sia in funzione anticiclica che per lo sviluppo di specifici settori. Ancora oggi, per gli attuali trattati, è indifferente che la proprietà sia pubblica o privata.

La progressiva liberalizzazione della circolazione delle persone ha preceduto quella dei capitali.

In questo quadro, l’equiparazione dei lavoratori immigrati a quelli indigeni ha beneficiato  particolarmente i lavoratori italiani emigrati.  Occorre ricordare l’azione dei sindacati belgi che furono i primi a  sostenere questa battaglia per la difesa dei diritti e degli interessi comuni  dei minatori indigeni e immigrati (in maggioranza italiani).

Sarà l’avvento al potere della signora Thatcher, pochi anni dopo l’ingresso del Regno Unito nelle allora Comunità Europee, a rappresentare la prima significativa svolta. Lo stesso ingresso della gran Bretagna (insieme alla Repubblica d’Irlanda e alla Danimarca) fu il primo esempio nelle istituzioni europee di “allargamento” geografico al posto dell’ “approfondimento” istituzionale.

Immediatamente il governo britannico aprì con le istituzioni comunitarie una querelle riguardo il risarcimento dovuto alla Gran Bretagna per un preteso maggior contributo dato alle istituzioni europee.

Questa riduzione a procedimento contabile fu il primo pesante colpo allo spirito iniziale. Lo spirito dell’EFTA (European Free Trade Association), associazione di libero scambio che riuniva i paesi europei non appartenenti alle Comunità Europee, iniziò a prevalere nella costruzione europea. Nelle aree di libero scambio, infatti, si vuole assicurare solo una comune concorrenza tra operatori economici rispetto alle sole merci prodotte all’interno dell’area, senza nemmeno un’unione doganale. Il principio ispiratore è puramente competitivo senza alcun elemento collaborativo.

Quest’inizio di “mutazione genetica” rese, come solo oggi possiamo comprendere pienamente, politicamente irrilevante l’importante innovazione istituzionale dell’elezione diretta del Parlamento Europeo. Parlamento che, è sempre bene ricordare, ha poco in comune con i parlamenti del “900 e anche con quelli della seconda metà dell’ ‘800. Malgrado qualche piccola concessione intervenuta nel tempo, il Parlamento Europea assomiglia, più’ che a un vero parlamento, a quelle Diete concesse dai sovrani della Germania meridionale, subito dopo il congressi di Vienna,  che mitigavano  apparentemente l’assolutismo.

Il canto del cigno della prima stagione delle istituzioni  europee fu sicuramente il “progetto Spinelli”. Un progetto di Costituzione Europea approvato dal primo Parlamento Europeo votato a suffragio universale al termine della sua prima “legislatura”. Le stesse forze moderate e socialdemocratiche che votarono quel progetto si guardarono bene dal farlo progredire da parte di quei governi che pur sostenevano nei singoli paesi membri. Il referendum consultivo successivamente tenuto in Italia fu  l’unico esempio in Europa di onestà intellettuale della classe politica dirigente dell’epoca.

I tempi erano cambiati, si avviava la svolta neoliberale e le classi politiche, che nel trentennio precedente avevano sostenuto convintamente le politiche keynesiane, non solo rinunciarono a trasporle a livello europeo, ma si affrettarono a liquidarle nei singoli stati.

Un punto importante di questa svolta fu la confusione (voluta?) che si creò tra neoliberismo e ordoliberismo, pur parlando talvolta di scuola di Vienna (von Hayek) contrapposta a quella di Freiburg (Rüstow e Eucken) o di capitalismo anglosassone contrapposto a quello renano.

Si può riassumere grossolanamente tale contrapposizione tra la prima ideologia e la seconda, nel fatto che la prima crede nella forza primigenia e naturale del mercato, che aspetta solo di essere liberata dalle ingerenze del potere politico, mentre la seconda vede inevitabile l’intervento dello stato per proteggere il mercato da fragilità intrinseche, ingerenze e degenerazioni monopolistiche. Questa doppia anima corrisponde però ad una unitarietà di base, come è stato illustrato lucidamente da Massimo De Carolis1.

Il ruolo dello stato, con la possibilità (peraltro concreta in alcuni paesi e  condizioni storiche) di uno spazio di mediazione politica, spiega la capacità seduttiva che l’ordoliberalismo ha avuto nei confronti di forze socialdemocratiche e cristiano-sociali, nell’area centro-nordeuropea particolarmente in Germania. Riuscendo così negli anni seguenti a giocare il ruolo di ”cavallo di Troia” del neoliberismo puro e duro.

Ad aiutare l’affermazione della nuova egemonia fu sicuramente la mancanza di un contrappeso culturale.

Le forze politiche con basi di massa persero progressivamente una capacità propositiva per subire passivamente un’offensiva culturale che, come illustrò puntualmente le Monde Diplomatique, non è stata  per nulla spontanea. Il brusco cambiamento geopolitico intervenuto negli anni 1989-1991, con l’avvio della svolta neoliberale nell’intero pianeta, contribuì a consolidare senso comune l’assunto ideologico che “non c’è alternativa”.

Dal trattato di Maastricht, a quello costituzionale, prima fallito poi riproposto come Trattato di Lisbona, le istituzioni Europee si permearono pienamente di questa nuova ideologia, perdendo ogni residua “neutralità” rispetto alle politiche  possibili. E quando un popolo rifiuta con un referendum queste imposizioni, o si aggira il risultato della scelta popolare (Francia e Olanda) o, se la Costituzione del paese non lo consente (Irlanda), si riporta il popolo alle urne , finché, alternando blandizie e minacce, non vota come ci si aspetta che voti.

Sarà gustosa materia per gli storici  futuri tracciare un parallelo tra queste parodie di sovranità popolare e la prosecuzione, fino al III secolo d. C., dell’approvazione delle leggi da parte del popolo romano riunito nei Comizi per garantire la  finzione del “Senatus Populusque” anche in avanzata epoca imperiale.

Per imbrigliare il ruolo del Parlamento Europeo, oltre alla posizione di minorità rispetto alle altre istituzioni dell’Unione, svolge un ruolo importante l’apparato dei lobbisti. Questi circa 14.000 lobbisti (in un rapporto di 20 a 1 rispetto ai parlamentari), hanno un robusto budget, non per la corruzione spicciola come potrebbe pensare la vulgata corrente, ma per offrire supporto di visibilità politica ai deputati “amici” dei gruppi di interesse economici (ovviamente per il  99% si tratta di associazioni di imprese capitalistiche, essendo totalmente residuali i gruppi di pressione riferiti a sindacati e iniziative di cittadini), anche appoggiandoli nella redazione di emendamenti o interrogazioni parlamentari con supporto di documentazione informativa (ovviamente unilaterale).

Non si deve pensare che quest’attività si limiti a condizionare i singoli parlamentari, si rivolge anche ai membri della Commissione. All’inizio di questo secolo fece scalpore scoprire che il progetto di direttiva per la brevettabilità del software, presentato come proprio dalla commissaria competente, era in realtà stato scritto (il file materiale!) con un elaboratore di testi la cui licenza era intestata alla lobby dei produttori di software. Piace pensare che questa superficialità abbia contribuito all’affossamento della direttiva. In ogni caso i media mainstream, particolarmente in Italia, censurarono totalmente la notizia.

Potremmo definire il funzionamento delle istituzioni europee, non come un sistema democratico, ma come un sistema misto. Quel tipo di sistema, diffuso nelle polis dell’antichità (Roma compresa) e nei Comuni medievali,  che, non rinnegando teoricamente l’origine popolare della sovranità, aveva cura di imbrigliarla in modo da conservare il potere nelle mani di un’oligarchia. Non a caso la sua popolarità fu costante nella memoria delle classi dirigenti di ogni epoca.

Tra i vari modi per indirizzare in senso neoliberale le politiche europee sono da segnalare le diverse maggioranze che servono nelle deliberazioni del Consiglio: la maggioranza qualificata è sufficiente in molte decisioni; ma serve l’unanimità per ogni decisione di politica sociale o fiscale. Poichè nell’attuale configurazione dell’Unione Europea ci sono Stati che hanno scelto l’ingresso nell’Unione proprio per poter fare dumping sociale e fiscale, questi Stati non acconsentiranno mai a votare contro la ragione della loro appartenenza all’UE.

Gli ultimi allargamenti dell’Unione, mutandone le caratteristiche geopolitiche ne hanno mutato, forse irreversibilmente, la natura.

Per comprendere questo processo di espropriazione democratica occorre tenere conto di una particolarità del diritto europeo (inteso come diritto dell’UE). Esso si presenta infatti con un doppio aspetto.

Rispetto ai singoli stato membri, il diritto europeo è sovraordinato ai singoli ordinamenti nazionali in base a un principio di “primato” rispetto anche alle norme costituzionali (ma non ai principi fondamentai) degli stati membri.  Il Diritto europeo si basa però su trattati internazionali che sono redatti in modo radicalmente diverso dalle norme interne sia ordinarie che costituzionali. A differenza delle norme statuali ,i trattati non perseguono la chiarezza; ma la adattabilità al mutare dei rapporti di forza (in questo caso anche al mutare delle egemonie culturali) facendo della loro ambiguità ed imprecisione elementi di forza e non di debolezza.

In questo modo, grazie anche all’apporto di decisioni della Commissione e della giurisprudenza (in vero più prudente) della Corte di Giustizia dell’Unione, i diritti sociali, pure richiamati da numerosi atti, sono stati progressivamente subordinati a quelli che sono diventati i principi fondamentali: la concorrenza, la libera circolazione di merci e capitali e i parametri di Maastricht. Gli stessi diritti democratici vengono confinati con forza ad un ruolo eminentemente procedurale e vedono ridotta la loro sfera decisionale.

Si verifica qualcosa di analogo a quello avvenuto in Italia quando  la nostra Costituzione fu arbitrariamente divisa in una parte “precettiva” e una “programmatica” allo scopo di depotenziare i diritti sociali. La Corte Costituzionale coraggiosamente rifiutò quest’interpretazione, grazie anche al  radicamento culturale (anche di cultura giuridica) di grandi forze popolari.

Non a caso questo non è avvenuto a livello europeo, dimostrando ulteriormente l’assenza di un’autentica base popolare dell’Unione Europea. Ma anche la nostra cultura giuridica nazionale sta interiorizzando questo sovvertimento di principi. Un esempio lampante è la sentenza del TAR Lombardia 2 (confermata dal Consiglio di Stato) che nel respingere il ricorso del movimento per l’Acqua Pubblica contro una la decisione di ARERA, che reintroduce la remunerazione del capitale abrogata dal referendum, si avvale, come principio ispiratore della decisione, dell’ ”‘orientamento generale della scienza economica” . Assistiamo in tempo reale  all’affermarsi  di una nuova, intollerante, egemonia ideologica.

Come comportarsi in questo quadro desolante?

Il primo passo necessario è di ricostruzione logica del linguaggio, uscendo dalla confusione della falsa equivalenza tra Unione Europea ed Europa e recuperando tutti gli aspetti del problema: geopolitici, culturali, politiche  sociali e relativi antagonismi.

In questo quadro bene hanno fatto gli amici di Attac Germania a organizzare recentemente un convegno di grande respiro  a Kassel. Il primo tema affrontato è stato: “Un’altra Europa è possibile! Un’altra UE è possibile?”.  Sgombrando il campo dall’equivoco di Europa ed EU come sinonimi, è stato possibile affrontare la “questione europea” da tutti i punti di vista, partendo da quelli geografici e culturali, tenuti normalmente in ombra. Questa operazione contribuisce a rilanciare ogni azione relativa alla dimensione europea su basi di assoluto realismo.

Attac Austria ha contemporaneamente dato alle stampe un collettaneo dal titolo in inglese “the European Illusion”, con un sottotitolo, nella versione tedesca, illuminante “Perché l’EU non si può salvare e l’uscita non è una soluzione”. Sì o No all’ Euro, Sì o No all’ Ue sono alternative poste in modo scorretto, da abbandonare in quanto eredità di un approccio logico deduttivo astratto, utilissimo in moti campi del sapere, ma deleterio nell’agire politico.

Non dobbiamo ragionare delle crisi dell’Europa (sia dell’ Unione Europea che dell’Europa come continente) da cui far discendere una soluzione a priori ed  astratta e un altrettanto astratta road-map da perseguire; ma occorre pensare “nella” crisi e  agire partendo da quest’ultima modalità di approccio ai problemi.  Non sono i problemi dell’Europa, ma le irrisolte questioni sociali e ambientali che il neoliberismo ha spaventosamente aggravato (in alcuni casi scatenato) nel continente europeo e nella carne viva dei popoli che lo abitano, che devono essere poste al centro del confronto.

In questo contesto è imprescindibile una visione continentale europea (e non solo genericamente internazionale) sia nell’analisi che nell’azione.

[1] Massimo De Carolis “Il rovescio della libertà” Quodlibet 2017

[2] n. 00780/2014

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 37 di Novembre – Dicembre 2018. “Europa: la deriva di un Continente?

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